La prova della non fallibilità dell’imprenditore sotto soglia può essere data anche senza bilanci
La Cassazione, con l’ordinanza n. 30541/2018, ancora una volta è chiamata a decidere sui requisiti soggettivi per la dichiarazione di fallimento previsti dall’art. 1, comma secondo, l.fall. Pure ribadendo la valenza fondamentale da riconoscere ai bilanci presentati dall’impresa, ai fini della prova del mancato superamento delle soglie previste dalla legge fallimentare, la S.C. afferma che l’imprenditore è nella condizione di dimostrare anche con altra documentazione, di essere sottratto alle procedure concorsuali, non essendo in sostanza il deposito davanti al tribunale dei detti bilanci, requisito indefettibile per dimostrare la non fallibilità sotto il profilo soggettivo dell’impresa.
La Cassazione torna ad occuparsi del tema, invero assai ricorrente nei giudizi di reclamo avverso le sentenze dichiarative di fallimento, concernente i requisiti soggettivi di fallibilità e, in particolare, circa la prova del superamento delle c.d. soglie dimensionali previste dall’art. 1, comma secondo, l.fall., come riformato prima dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e poi dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che ha sottratto alle procedure concorsuali gli imprenditori con ricavi lordi, attivo patrimoniale ed esposizione debitoria complessiva inferiori a determinate soglie prefissate dalla legge.
In realtà, la vicenda sottoposta all’esame della S.C. appare ai più di assai facile soluzione, in quanto il fallito, titolare di una impresa individuale, lamentava che la corte d’appello avesse ritenuta necessaria ai fini della prova della sua sottrazione alle procedure concorsuali, la produzione dei propri bilanci, ritenendo inidonee le sole dichiarazioni fiscali; al contrario – come osserva la medesima S.C. – il giudice del gravame aveva semplicemente affermato che le dichiarazioni fiscali del contribuente non possono essere in grado di dimostrare, proprio per il loro intrinseco contenuto oggettivo, il mancato superamento della soglia dell’esposizione debitoria complessiva esistente in capo all’imprenditore.
Prendendo spunto dai motivi del ricorso, tuttavia, la Corte di legittimità coglie l’occasione per una puntualizzazione sul ruolo del bilancio delle imprese – inteso onnicomprensivamente sia come “inventario” redatto ai sensi dell’art. 2217 c.c., che come vero e proprio “bilancio sociale” ex art. 2423 c.c. –, ai fini della prova del superamento delle ridette soglie dimensionali.
Invero, dopo le cennate riforme del biennio 2006 e 2007, la S.C. ha sempre affermato che l’omesso deposito della situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata, come pure dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, da parte dell’imprenditore raggiunto da istanza di fallimento, in violazione dell’art. 15, quarto comma, l.fall., si risolve in danno dell’imprenditore medesimo, che è onerato della prova del non superamento dei limiti dimensionali quale causa di esenzione dal fallimento, ai sensi dell’art. 1, secondo comma, l.fall. (Cass. Civ. Sez. 6-1, 24 ottobre 2017, n. 25188; Cass. Civ., Sez. 1, 31 maggio 2012, n. 8769).
Inoltre, nella giurisprudenza di legittimità è ricorrente l’affermazione che ai fini della prova, da parte dell’imprenditore, della sussistenza dei requisiti di non fallibilità di cui si discute, i bilanci degli ultimi tre esercizi costituiscono la «base documentale imprescindibile», ma non anche una prova legale, sicché, ove ritenuti motivatamente inattendibili dal giudice, l’imprenditore rimane onerato della prova circa la ricorrenza dei requisiti della non fallibilità (Cass. Civ., Sez. 1, 1 dicembre 2016, n. 24548; Cass. Civ., Sez. 1, 30 giugno 2014, n. 14790; Cass. Civ., Sez. 6-1, 28 giugno 2012, n. 11007).
Con la pronuncia in commento la S.C. si mostra ben consapevole di siffatti orientamenti e, sia pure in apparente continuità, ritiene necessario soffermarsi più attentamente sulla esatta valenza dei bilanci dell’impresa, ai fini della prova della sottrazione dal fallimento.
Ora, è persino ovvio dire che il bilancio di esercizio costituisce nell’ambito dell’istruttoria prefallimentare uno strumento di prova in ordine alla non fallibilità dell’imprenditore; esso in realtà può qualificarsi senz’altro come il “canale privilegiato” o anche “naturale” – così lo definisce la Corte – per la valutazione in ordine al superamento o meno delle c.d. soglie, solo considerato che la funzione specifica e propria di tale documento contabile è, per l’appunto, quella di rappresentare la «situazione patrimoniale e finanziaria» dell’impresa (come recita l’art. 2423, comma secondo, c.c.).
E però questa pacifica constatazione, secondo i Giudici di legittimità, non è destinata ad andare oltre il piano della sua utilità operativa, cioè della comune consapevolezza della specifica idoneità dei bilanci a fornire, meglio di qualsiasi altro documento, i dati che consentono di verificare i parametri imposti dalla disciplina concernente i presupposti di non fallibilità.
Tuttavia, afferma la Corte che devono ritenersi utilizzabili anche strumenti probatori alternativi a quello dato dal deposito dei bilanci di esercizio; e non solo in via integrativa o di cumulo rispetto a tali documenti, ma anche in sostituzione di siffatta prova.
Questa conclusione, secondo la sentenza in commento, anzitutto consegue dalla constatazione che la norma dell’art. 1 l.fall.nemmeno contiene un richiamo espresso ai bilanci dell’impresa; né potrebbe ritenersi determinante, in direzione contraria, la circostanza che la norma dell’art. 15, comma quarto, l.fall. dispone che «l’imprenditore depositi i bilanci degli ultimi tre esercizi», in quanto quest’ultima disposizione governa in generale la materia dell’istruttoria prefallimentare, mentre l’art. 1 è disposizione limitata al tema dei presupposti di non fallibilità.
In realtà, il ridetto art. 1, comma secondo, l.fall. indica in modo espresso che la sussistenza del presupposto dei ricavi lordi può risultare «in qualunque modo»: né v’è ragione quindi per non riferire tale evenienza pure agli altri due presupposti.
Per altro verso, non va trascurato che la norma in esame ha sostituito quella che, nell’originario disegno della legge fallimentare,
sottraeva alla procedura i piccoli imprenditori: soggetti, questi ultimi, tutt’oggi esonerati, ai sensi del terzo comma dell’art. 2214 c.c., dall’obbligo di tenere il libro degli inventari e, quindi, di redigere al termine di ogni anno il relativo bilancio.
Rimane, infine, del tutto estranea alla logica della norma in discorso
una funzione “sanzionatoria” nei confronti dell’imprenditore che non abbia redatto il bilancio di esercizio, ovvero anche solo tendenzialmente “premiale” rispetto a quello che invece lo abbia fatto.
Sul piano sistematico, del resto, l’imposizione di un “pregiudiziale” deposito dei bilanci di esercizio, ai fini della verifica dei presupposti di sottrazione al fallimento, si mostrerebbe all’evidenza non coerente con la vigente normativa che oggi si disinteressa del requisito della tenuta di una «regolare contabilità» da parte dell’imprenditore, a differenza di quanto previsto in passato dall’originario art. 160 l.fall. in tema di ammissione al beneficio del concordato preventivo.
In definitiva, alla stregua del ragionamento pienamente condivisibile della pronuncia in commento, i bilanci redatti dall’imprenditore, sia esso individuale che collettivo, rappresentano il migliore e più attendibile strumento per dimostrare le reali dimensioni dell’impresa su cui grava un’istanza di fallimento; tuttavia, non può escludersi in thesi che l’imprenditore si trovi nella condizione di potere dimostrare anche con documentazione di altra natura – si pensi alle dichiarazioni fiscali obbligatorie, ovvero alle altre scritture contabili dell’impresa diverse dall’inventario – quale siano la sua reale situazione patrimoniale, il giro d’affari e l’esposizione debitoria complessiva, al fine di sottrarsi al fallimento in forza del mancato superamento delle soglie dimensionali previste dalla legge.
Cassazione civile, Sez. I, ordinanza 26 novembre 2018, n. 30541