Imposte – Royalties con ritenuta convenzionale per soggetti non residenti e certificazione dei requisiti
Il momento discriminante per la corretta qualificazione e determinazione delle ritenute è individuabile nella presentazione della dichiarazione, pertanto è in questa sede che il sostituto d’imposta deve possedere tutta la documentazione idonea a giustificare l’applicazione di una ritenuta ad aliquota ridotta. Resta fermo che la ritenuta deve essere operata al momento di erogazione del compenso e se neanche al momento della presentazione della dichiarazione la certificazione è nelle mani del sostituto, questi dovrà dichiarare il compenso con annessa ritenuta ad aliquota piena.
È ormai prossima la scadenza per la presentazione delle dichiarazioni relative all’anno d’imposta 2017, compresa quella dei sostituti d’imposta, di cui all’art. 4 del d.p.r. del 22 luglio 1998 n. 322.
Tra gli elementi da indicare vi sono le ritenute operate ai sensi degli articoli 23 e seguenti del d.p.r. n. 600/1973 ed il presente contributo si pone l’obiettivo di circoscrivere il perimetro entro il quale il sostituto d’imposta può considerarsi al sicuro da eventuali contestazioni quanto ad effettuazione, versamento e dichiarazione delle ritenute da operare sulle royalties corrisposte a soggetti non residenti.
Il quadro normativo
Ai sensi dell’art. 25 comma 4 del d.p.r. n. 600/1973, i compensi elencati all’articolo 23, comma 2, lettera c), del TUIR, corrisposti a non residenti, sono soggetti ad una ritenuta del trenta per cento a titolo di imposta.
Si tratta dei compensi relativi all’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa, nonché di processi, formule ed informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico.
In buona sostanza rientrano in tale definizione tutti i redditi che nella prassi internazionale vengono identificati con i termini di “canoni” o “royalties” e fanno parte della più ampia categoria dei cosiddetti “passive income”.
Quella appena delineata è la disciplina fiscale interna, la quale può essere definita di tipo residuale, in quanto applicabile a tutte le fattispecie che non rientrano tra quelle disciplinate dalla Direttiva n. 2003/49/CE “interessi e canoni”, recepita in Italia con l’introduzione dell’art. 26-quater all’interno del d.p.r. n. 600/1973 ad opera del d.lgs. del 30/05/2005 n. 143, o da una delle oltre 90 Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia con i Paesi terzi, per lo più basate sul Modello di Convenzione OCSE.
La prevalenza del diritto internazionale su quello domestico e, di conseguenza, il carattere residuale della norma interna in commento, può essere rinvenuto nell’art. 10 della Costituzione, in forza del quale “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme ed ai trattati del diritto internazionale generalmente riconosciuti”.
Inoltre, per quel che più strettamente riguarda il diritto tributario, l’art. 75 del d.p.r. n. 600/1973 prevede che “nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”.
Pertanto, nel caso in cui ad una determinata fattispecie siano applicabili le disposizioni di cui alla citata Direttiva, questa prevale sulla normativa interna e, in forza della stessa, i redditi oggetto della presente trattazione sono esentati da qualsivoglia imposta.
Nel caso in cui, invece, sia riscontrata la presenza di tutti i requisiti richiesti dall’art. 12 di una delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, le royalties percepite da un soggetto non residente vengono assoggettate ad una ritenuta convenzionale che, di solito, oscilla tra il 5% e il 10%.
Appare evidente come nel mercato attuale, dove l’internazionalizzazione è un elemento sempre più predominante, la possibilità di applicare una disciplina fiscale, piuttosto che un’altra, può assumere una rilevanza non trascurabile nelle scelte strategiche e di pianificazione finanziaria degli operatori economici.
Ciò che appare lampante e che contraddistingue le disposizioni sovranazionali in commento è che la potestà impositiva degli Stati coinvolti subisce una limitazione.
Ciò è giustificato dall’obiettivo di evitare le doppie imposizioni e favorire lo sviluppo del mercato, anche se, negli ultimi anni, l’obiettivo principale degli Stati si sta prevalentemente orientando alla collaborazione con il contribuente in buona fede da un lato, ed al contrasto delle cosiddette “pianificazioni fiscali aggressive” poste in essere da taluni operatori economici multinazionali dall’altro.
La fattispecie
Si prenda il caso di un soggetto residente in Italia che deve corrispondere royalties ad un soggetto residente in Germania che possiede tutti i requisiti richiesti dalla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra i due Paesi (di seguito anche “Convenzione”) per potersi veder applicare la relativa ritenuta ad aliquota ridotta.
Ai sensi dell’art. 12 della Convenzione, i canoni provenienti dall’Italia e pagati ad un soggetto residente in Germania sono imponibili in quest’ultimo Stato.
Sempre in forza della disposizione in commento, tali canoni sono imponibili anche in Italia, ma, se il percettore ne è l’effettivo beneficiario, l’aliquota d’imposta applicata non può superare il 5%.
È evidente come sia interesse del percettore tedesco vedersi applicare l’aliquota convenzionale, pertanto è suo onere dimostrare di possedere i requisiti richiesti.
In proposito, la Convenzione Italia-Germania, all’art. 29, prevede che le imposte prelevate mediante ritenuta alla fonte siano rimborsate a richiesta dell’interessato, qualora il diritto alla percezione di dette imposte da parte dello Stato della fonte, nel nostro caso l’Italia, sia limitato dalle disposizioni della Convenzione stessa.
Inoltre, viene specificato che l’istanza di rimborso deve essere corredata di un attestato ufficiale dell’altro Stato contraente, nel caso che ci occupa la Germania, certificante che sussistono le condizioni richieste per avere diritto all’applicazione delle esenzioni o riduzioni previste dalla Convenzione.
In buona sostanza, il testo della Convenzione ammette il rimborso della maggiore imposta trattenuta al percettore del reddito, il quale, all’atto del pagamento, ha subìto una ritenuta determinata applicando l’aliquota prevista dalla normativa interna, che, per i redditi di fonte italiana, è del 30%.
È poi interesse del soggetto estero, al ricorrere dei requisiti previsti, chiedere il rimborso di quanto trattenutogli in eccedenza.
Invero, il paragrafo 21 del Protocollo accluso alla Convenzione dispone che l’applicazione della ritenuta con aliquota convenzionale in luogo di quella prevista dalla normativa interna, può essere richiesta dal percettore al proprio debitore, sempre producendo l’attestazione che certifica la presenza dei requisiti richiesti.
Quest’ultima possibilità appare evidentemente più snella e di conseguenza preferibile da un punto di vista imprenditoriale.
Gli elementi contrari alla tesi prospettata
Un’interpretazione letterale delle disposizioni qui oggetto di analisi lascerebbe, tuttavia, pensare che l’attestazione debba essere prodotta necessariamente prima del pagamento, posto che, in caso contrario, il debitore sarebbe chiamato ad applicare l’aliquota prevista dalla normativa interna.
Anche la prassi interna, con la proliferazione di varie circolari e risoluzioni, nonché, da ultimo, con l’emanazione del Provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate del 10 luglio 2013, sembra convergere unanimemente verso un’interpretazione prudenziale e protezionistica degli interessi erariali.
In buona sostanza si vuole evitare che la tassazione alla fonte dei flussi reddituali diretti a soggetti non residenti subisca riduzioni illegittime, ammettendo queste ultime se, e solo se, venga certificata l’effettiva presenza dei requisiti necessari prima che le risorse finanziarie escano definitivamente dallo Stato.
In proposito, non si può fare a meno di menzionare la Circolare n. 2 del 1980 del Ministero delle Finanze o la Risoluzione n. 86/E del 2006 dell’Agenzia delle Entrate, le quali affermano che i sostituti d’imposta, sotto la propria responsabilità, possono applicare direttamente l’esenzione o le minori aliquote convenzionali, previa presentazione da parte dei beneficiari del reddito della documentazione idonea a dimostrare l’effettivo possesso di tutti i requisiti previsti dalla Convenzione.
Inoltre, il più recente Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate prot. n. 2013/84404 del 10 luglio 2013 (di seguito anche “Provvedimento”), di approvazione dei modelli di domanda per il rimborso, in forza delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, della Direttiva “madre-figlia” e della Direttiva “interessi e canoni”, delle maggiori imposte pagate in Italia dai soggetti non residenti, prevede, in alternativa al rimborso, la possibilità di utilizzare il modello stesso ai fini dell’esonero dall’imposta o dell’applicazione dell’aliquota ridotta sui redditi erogati da soggetti residenti.
In buona sostanza, il modello di rimborso di cui al Provvedimento è utilizzabile sia per chiedere appunto il rimborso, sia al fine di presentarlo al sostituto d’imposta italiano, affinché applichi direttamente la norma convenzionale di favore.
Volendo fare stretto riferimento al caso che ci occupa, vale la pena segnalare che nelle istruzioni accluse al modello relativo ai rapporti Italia-Germania è previsto espressamente che se il modello stesso viene utilizzato ai fini dell’esonero parziale o totale ai sensi del paragrafo 21 del Protocollo annesso alla Convenzione, l’interessato provvede a farlo pervenire al debitore dei canoni, convalidato dall’Autorità fiscale tedesca, prima del pagamento.
I documenti di prassi citati, ma ancor più esplicitamente le note illustrative appena menzionate, non lasciano spazio ad interpretazioni, richiedendo che l’attestazione della presenza dei requisiti deve essere prodotta prima del pagamento da assoggettare a ritenuta, con tanto di certificazione da parte delle Autorità fiscali dello Stato estero.
Tutto ciò, sebbene in linea teorica ineccepibile, può risultare di difficile applicazione nella pratica, posto che non sempre è possibile per gli operatori economici conciliare i propri rispettivi tempi e priorità, considerato, peraltro, che il soggetto estero è chiamato anche a far certificare la presenza dei requisiti richiesti dalle disposizioni agevolative all’Amministrazione finanziaria di propria competenza.
Può accadere, quindi, che il licenziante di un marchio, dotato di molta forza contrattuale, possa esigere il pagamento di quanto dovutogli con l’applicazione di una ritenuta ad aliquota ridotta, pur non avendo prodotto la documentazione all’uopo necessaria al licenziatario, rectius sostituto d’imposta.
In tali circostanze, quest’ultimo potrebbe essere messo “alle strette” ed indotto a scegliere se continuare il rapporto con il proprio interlocutore, possibilmente strategico, o sposare la tesi appena delineata e rispettare alla lettera la normativa fiscale, o meglio, i documenti di prassi fin qui analizzati.
Gli elementi a favore della tesi prospettata
A ben vedere, un’analisi combinata della normativa e della prassi interna da un lato e della giurisprudenza comunitaria dall’altro, lascia aperta la porta ad una valutazione non così stringente degli obblighi gravanti su sostituto e sostituito.
In primo luogo, va sottolineato che i documenti di prassi non sono atti normativi e, pertanto, non possono apportare innovazioni all’ordinamento giuridico, se non entro i limiti eventualmente stabiliti dalle norme stesse.
In tal senso recita lo Statuto dei diritti dei contribuenti, l. n. 212/2000, nonché la giurisprudenza più qualificata, rappresentata, su tutte, dalla Cass. Civ. n. 237/2009.
In buona sostanza, il corretto comportamento che il contribuente deve tenere va ricercato nelle disposizioni normative vigenti, siano esse interne o sovranazionali.
Non si può fare a meno di notare, quindi, che a differenza delle fattispecie cui si applica l’art. 26-quater o l’art. 27-bis del d.p.r. n. 600/1973, in tema di esenzione dalle ritenute in applicazione, rispettivamente, della Direttiva “interessi e canoni” e della Direttiva “madre-figlia”, non si rinvengono nel nostro ordinamento disposizioni normative che richiedano la produzione, entro la data del pagamento, di una certificazione che attesti il possesso dei requisiti per poter beneficiare dell’applicazione di una ritenuta ad aliquota ridotta in forza dell’art. 12 di una delle Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata dall’Italia.
Inoltre, al comma 7 dell’art. 26-quater ed al comma 3 dell’art. 27-bis del d.p.r. n. 600/1973 del d.p.r. n. 600/1973, il legislatore ha previsto che con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate possono essere stabilite specifiche modalità di attuazione mediante approvazione di appositi modelli.
Anche tali disposizioni non risultano replicate in materia di ritenute convenzionali sulle royalties, tuttavia nel Protocollo accluso alla Convenzione, al paragrafo 21 lettera b) è stabilito che le autorità competenti degli Stati contraenti possono stabilire di comune accordo altre procedure per l’applicazione delle riduzioni d’imposta cui da diritto la Convenzione.
E qui entra “in gioco” il citato Provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate del 10 luglio 2013.
Tale Provvedimento infatti, enuncia tra le proprie fonti normative di riferimento, tra le altre, la Direttiva “interessi e canoni”, la Direttiva “madre-figlia”, nonché le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia.
I modelli approvati con il citato Provvedimento, se attentamente analizzati, offrono alcuni spunti di riflessione che vanno a sostegno della tesi favorevole alla produzione della certificazione dei requisiti anche in un momento successivo al pagamento.
Nel dettaglio, è previsto che il soggetto estero dichiari di aver posseduto tutti i requisiti nel corso del periodo d’imposta in cui ha percepito i pagamenti assoggettati a ritenuta.
Si tratta di pagamenti che alla data della certificazione evidentemente sono già avvenuti, posto che tra i dati da indicare vi è anche la data in cui è avvenuta l’operazione finanziaria.
Quindi è sufficiente che l’autorità fiscale estera attesti che nel corso di quel determinato periodo d’imposta, rectius alle date dei pagamenti percepiti, il Contribuente ha posseduto i requisiti richiesti.
Risulta sostanzialmente irrilevante, invece, la data in cui l’attestazione stessa viene rilasciata e, di conseguenza, appare ammissibile, se non addirittura fisiologico, che il documento in esame possa essere redatto anche in una data successiva.
Vale la pena di sottolineare, inoltre, che i requisiti richiesti dalle disposizioni convenzionali sono caratteristiche soggettive che devono essere riscontrate da un punto di vista sostanziale, posto che le stesse devono essere effettivamente possedute.
Il percettore dei redditi da assoggettare a ritenuta, quindi, soddisfa o meno i requisiti richiesti dalla normativa a prescindere dall’avere prodotto al proprio interlocutore la certificazione o, semplicemente, dal possederla.
Pertanto, l’attestazione che li certifica non può avere efficacia costitutiva in tal senso ed i termini indicati nei documenti di prassi, quindi, devono essere considerati ordinatori e non perentori.
Il principio di prevalenza della sostanza sulla forma trova riscontro anche nella giurisprudenza comunitaria.
Si veda ad esempio, la Sentenza C-21/16 Euro Tyre del 9 febbraio 2017, con la quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che l’amministrazione tributaria di uno Stato membro non può negare l’esenzione dall’IVA di una cessione intracomunitaria per il solo motivo che, al momento di tale cessione, l’acquirente, domiciliato sul territorio dello Stato membro di destinazione e titolare di un numero di identificazione IVA valido per le operazioni in tale Stato, non è iscritto al sistema VIES e non è assoggettato ad un regime di tassazione degli acquisti intracomunitari, allorché non esiste alcun serio indizio che lasci supporre l’esistenza di una frode ed è dimostrato che sono soddisfatte le condizioni sostanziali dell’esenzione.
È possibile concludere, quindi, che non può essere limitata la fruizione di una norma agevolativa per il solo fatto che manchi l’attestazione che il potenziale fruitore possieda effettivamente i requisiti richiesti.
Peraltro, come si dirà meglio in seguito, non si possono neanche esigere dal sostituto d’imposta attività di riscontro e controllo che vadano oltre la diretta conoscenza e la normale diligenza.
Inoltre, è appena il caso di segnalare che i Giudici europei, al paragrafo 36 della Sentenza del 17 ottobre 1996, nelle Cause riunite C-283/94, C-291/94 e C-292/94, hanno stabilito che, nell’ambito di applicazione della Direttiva “madre-figlia”, uno Stato membro non può subordinare la concessione dell’agevolazione fiscale relativa all’esenzione dalle ritenute sui dividendi alla condizione che la società capogruppo, al momento del pagamento, abbia detenuto la partecipazione per il periodo minimo previsto dalla normativa interna.
Ne consegue che il requisito in commento può essere portato a compimento anche in un momento successivo.
Appare evidente come la certificazione della sussistenza di tutti i requisiti, specie quello “di durata” appena citato, può essere prodotta anche in un momento successivo al pagamento.
Se è vero, come è vero, che ciò vale per l’erogazione dei dividendi, non si rinvengono ragioni perché tale principio non possa trovare applicazione anche in materia di royalties.
Ne consegue che, se in materia di dividendi è possibile usufruire dell’esenzione di cui alla Direttiva “madre-figlia” pur portando a compimento la sussistenza dei requisiti e di conseguenza ottenere la relativa certificazione in un momento successivo al pagamento, in materia di royalties, a parere di chi scrive, non si può negare la fruizione di una norma agevolativa a chi ne ha diritto, per il solo fatto che manchi l’attestazione che certifica la presenza dei requisiti che effettivamente possiede.
Pertanto, appare possibile applicare una ritenuta convenzionale alle somme corrisposte ad un soggetto estero a titolo di royalties, pur in assenza, si badi bene, non dei requisiti, ma della relativa certificazione.
Il sostituto, una volta appurata la ragionevole presenza dei requisiti ed, a fini cautelativi, l’altrettanto ragionevole sicurezza che la certificazione degli stessi verrà prodotta in tempi utili, può valutare la possibilità di applicare la ritenuta convenzionale, pur in assenza della certificazione.
Le conseguenze in capo al sostituto
Dal punto di vista degli obblighi e degli adempimenti che è chiamato ad ottemperare il sostituto d’imposta italiano, va segnalato in primo luogo che egli è chiamato ad operare la ritenuta all’atto del pagamento ai sensi dell’art. 25 del d.p.r. n. 600/1973.
In tale sede dovrà quindi stabilire l’aliquota da applicare e provvedere poi al versamento ai sensi dell’art. 8 del d.p.r. n. 602/1973 .
Tutto ciò al fine di scongiurare la successiva e conseguenziale violazione dell’art. 7 del d.p.r. n. 600/1973, per infedele presentazione della dichiarazione dei sostituti d’imposta.
D’altronde, ai sensi dell’art. 2 comma 4-bis del d.lgs. n. 471/1997, introdotto dal d.lgs. n. 158/2015, per ritenute non versate si intende la differenza tra l’ammontare delle maggiori ritenute accertate e quelle dichiarate.
Ne consegue che, fatti salvi i casi “patologici” in cui, a seguito dello svolgimento di controlli sostanziali, è l’Amministrazione finanziaria ad accertare eventuali maggiori ritenute non dichiarate, il momento discriminante per la corretta qualificazione e determinazione delle ritenute è individuabile proprio nella presentazione della dichiarazione.
Pertanto, è in sede di dichiarazione che il sostituto deve possedere tutta la documentazione necessaria affinché possa legittimamente indicare una ritenuta ad aliquota ridotta.
Resta fermo che la ritenuta deve essere operata al momento di erogazione del compenso, ma come chiarito dalla Circolare n. 147/1978 del Ministero delle Finanze, non si può demandare al sostituto d’imposta lo svolgimento di controlli e riscontri che vadano al di là della diretta conoscenza e della normale diligenza.
Pertanto, nello stabilire l’aliquota da applicare, nel caso in cui non dovesse avere a propria disposizione la documentazione necessaria all’applicazione della ritenuta convenzionale, il sostituto si assume la responsabilità della scelta che effettua.
In particolare, se al momento del pagamento il sostituto ha applicato una ritenuta ad aliquota convenzionale, ma neanche al momento della presentazione della dichiarazione la documentazione che certifica la sussistenza dei requisiti, deve indicare in dichiarazione il compenso lordo con annessa ritenuta ad aliquota piena.
Allo stesso tempo deve versare la differenza d’imposta a suo tempo non trattenuta, con conseguenti interessi e sanzioni per mancata esecuzione delle ritenute di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 471/1997, da corrispondere con la formula del ravvedimento operoso ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 472/1997.
Va precisato che, a seguito delle novità introdotte dal citato d.lgs. n. 158/2015, valevoli a far data dal 01/01/2016, non risulta applicabile la sanzione per omesso versamento.
La ratio di tale norma sta nel fatto che, sostanzialmente, non si può essere sanzionati per il mancato versamento di una ritenuta che non è mai stata effettuata.
Infatti, a partire dal 2016, l’eventuale mancata effettuazione delle ritenute è sanzionata solo ai sensi del citato art. 14 del d.lgs. n. 471/1997, mentre la presentazione di dichiarazione infedele per l’indicazione di ritenute in misura inferiore rispetto a quella accertata è sanzionata ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 471/1997.
Considerazioni conclusive
A parere di chi scrive, è auspicabile a fini cautelativi, ma non necessario, che al momento del pagamento il sostituto d’imposta abbia a disposizione tutta la documentazione richiesta per poter applicare una ritenuta ad aliquota agevolata.
Risulta invece dirimente avere la documentazione di cui trattasi al momento della presentazione della dichiarazione, in mancanza della quale, fatto salvo il ravvedimento operoso, il sostituto d’imposta si espone al rischio di dispendiose contestazioni, in termini di tempo e denaro, da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Ciò detto, in mancanza della documentazione giustificativa al momento del pagamento, sta a chi lo effettua valutare la ragionevole sussistenza dei requisiti soggettivi in capo al percettore, nonché le probabilità di ottenere la relativa certificazione in tempo utile una volta che il pagamento è stato effettuato.
Inoltre, devono essere opportunamente soppesate le conseguenze che potranno gravare in capo al sostituto stesso nel caso in cui le proprie aspettative non si riveleranno ben riposte.
Nelle ipotesi in cui la certificazione non viene prodotta in tempo utile, infatti, il sostituto è tenuto a dichiarare e versare le maggiori imposte dovute, con relativo aggravio di sanzioni ed interessi.
Per di più, al fine di limitare il danno economico subìto, deve attivarsi al fine di recuperare quanto indebitamente corrisposto al soggetto non residente.